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Racconti di uomini e luoghi di un’acciaieria del Nord Italia - A cura di Lorenzo Valmachino

  • Ottobre 22, 2018
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  • Scuola di fabbrica – Regione Autonoma Valle d’Aosta Archivio Storico Regionale – Fondo Nazionale Cogne Archivio Fotografico
    Scuola di fabbrica – Regione Autonoma Valle d’Aosta Archivio Storico Regionale – Fondo Nazionale Cogne Archivio Fotografico

Introduzione

Dopo il capitolo precedente che ci ha offerto un primo assaggio del “mondo di Alberto” – e di ciò che significava il termine sicurezza in acciaieria cinquant’anni fa – su questo numero entriamo più nel dettaglio della Scuola di Fabbrica, di quel­la fucina di formazione frequentata da chi non aveva la possibilità di studiare, e di cosa signifi­cava poi entrare in acciaieria con quest’etichetta, non sempre ben vista dai “meno giovani”...

Alessandro Ariu

Capitolo 2 - Riti di passaggio metalmeccanici

Dal romanticismo alla tecnica: - Mi dice qual­cosa sulla scuola di fabbrica? - corruga la fron­te e parte deciso – bé, la scuola di fabbrica era il passaggio sicuro per entrare a lavoro – forse è la parola “passaggio” o forse “scuola di fab­brica”, ma è come se mi parlasse di qualcosa di molto più antico, di una radice profonda e non del tutto sradicata, penso ai riti, penso ai labora­tori medievali. – Chi riusciva a finire la scuola di fabbrica veniva assunto […]. Siccome mio padre non aveva la possibilità di farmi studiare, questa era una possibilità di entrare a lavoro, pertanto ho fatto la scuola di fabbrica […]. Era severa; ogni quattro mesi c’era uno scrutinio e dovevi dimo­strare la perizia […], e chi non aveva la sufficien­za… Siamo partiti in 45 e siamo arrivati in 13. Io ero aggiustatore e, sempre per il discorso poeti­co, l’aggiustatore era un po’ più di fantasia.

Su questo girevole pianeta, la fissità è roba da metodici, che io, vittima del “forse”, tratto con di­screta ostilità; è inoltre risaputo che lo sguardo sia molteplice e almeno queste due ragioni (ma ce ne sarebbe altre tre o quattro) rendono giusto che io ripensi all’occhiata un po’ rigida che ho dato ad Alberto e di cui già mi pento. L’ho giudicato spingere forte a sinistra del cervello. Linee precise, calcoli, progetti dettagliati, anche un po’ di grigiume. Invece mi parla del “romanticismo della bicicletta” e “discorsi poetici” nei quali fare il meccanico in laminazione è cosa di fantasia. So­pravvive, durante tutta l’intervista, una spiccata tendenza analitica. Percen­tuali, grafici, modelli statistici, numeri. Tuttavia spalanca spesso finestroni su paesaggi aperti e intuitivi. E le intuizioni non si calcolano, si sperimen­tano. Così, tra obbligo e vocazione, in anni complicati, si accolla il compito di scendere in reparto. Torna tra gli operai, non più come loro, ma per loro. “Contatta i lavoratori”, dice, si avvicina, li ascolta, non vuole insegnare, ci ragiona e si carica dei loro problemi, rancori, memorie, fallimenti, morti. Alberto conosce la vita di fabbrica in scala 1:1, perché c’è stato dentro, e ora capisco che non è colpa mia se quest’intervista non ci fornirà gli stru­menti per prolungare la meraviglia del progresso industriale; è colpa sua che, invece di insegnarci un metodo giapponese o americano, ci racconta una storia metalmeccanica italiana sulla quotidianità nel luogo del lavo­ro, sull’importanza dell’essere presenti, e che continua così: - Dopodiché, siccome avevo superato la scuola di fabbrica, sono entrato aggiustatore in laminazione, su un impianto che aveva un nuovo sistema di montaggio cuscinetti a pressione. - Ha il fascino delle cose tecniche, ma non mi perdo. E’ invece interessante che la squadra, composta per occuparsi di questo nuovo sistema, è considerata una sorta di avanguardia e impongono loro di lavorare sempre con la tuta bianca - che poi eravamo i più sporchi e grassi di tutti - e viene formata solo da giovani provenienti dalla scuola di fabbrica - non c’erano le vecchie gerarchie. I vecchi, quando uno entrava… era un po’ come la naia… ma noi eravamo tutti nuovi; c’erano persone che ave­vano un po’ di esperienza di laminazione, ma non per quan­to riguardava quel montaggio. Eravamo tutti ragazzi che ci conoscevamo, non c’erano vecchi e non c’erano gelosie. - I vecchi e le loro gelosie lavorative, posso non chiedere? No che non posso. - Ti dicevano: “Hai fatto la scuola? Bravo! Prendi la scopa e pulisci bene!”, oppure “vammi a prendere il martello di piombo”, “porta una carriola di corrente”,“cerca la squadra rotonda”. - Gli racconto che il mio vecchio, Pino, che era vecchio sul serio, mi diceva: “Bocia [nome generico di apprendista], portami il ramòn [nome generico di attrezzo]”, “cos’è il ramòn, Pino?”, lui rispondeva con frasi non troppo educate nelle quali compariva invariabilmente una parola che suonava tipo lazzo: lazzo, lo capisci lazzo? Prendi sto lazzo! Testa di lazzo! E avanti così. Alberto ride e arrossisce, per la mia confidenza un po’ rude, ma nello sguardo brilla una luce affettuosa e ricorda - mi raccontava un amico che appena ar­rivato in reparto gli fanno “di che parrocchia sei tu?” e questo risponde “di Sant’Orso” [chiesa del centro storico di Aosta] – ride ancora – “di che parrocchia sei?” per loro voleva dire “da che reparto arrivi?” – gergo, il suo amico era nuovo e non lo conosceva, come io dovevo imparare a capire quale fosse l’attrezzo giusto per ogni lavoro.

Era stato capo officina per una vita. Lo trovavo al bar delle
bocce, gli offrivo un bicchiere e mi regalava le sue storie: il
padre in acciaieria dal ’22 e la madre che preparava lumache
alla parigina per i signorotti del centro; nel quartiere nessuno
chiudeva a chiave la porta di casa e al quindici del mese si
faceva il giro dei negozi per pagare i debiti; il gelato costava
dieci lire e i bambini andavano nei cantieri a raccogliere chiodi
per venderli a un veneto che comprava “ossi, strassi e fèro
vècio”, un chilo di ferro, dieci lire, un gelato. E ogni volta mi
diceva - bisogna che poi parliamo della scuola di fabbrica - è
arrivato il momento. - Quando ho finito le elementari mio padre
mi fa: “Non abbiamo soldi, però se vai alla scuola di fabbrica e sei
promosso ti assumono subito”. Sono entrato nel ‘50. Sai come
funzionava? I primi due anni facevamo teoria al mattino e officina
al pomeriggio, e il terzo si andava a lavorare in reparto. Finiti i
tre anni non temevamo nessun perito meccanico. Se avevi alle
macchine qualcuno uscito dalla scuola di fabbrica e gli davi un
disegno, difficilmente cercava aiuto, perché leggevamo i disegni
come un libro aperto, perché alla scuola ti facevano innamorare
della materia, non si faceva un passaggio senza capire perché lo
avevamo fatto. Quando si sentiva di ragazzi che uscivano dalla
scuola di fabbrica, venivano subito presi. Gli ultimi anni, invece,
arrivavano questi giovani dalle scuole tecniche, anche bravi, da
buone famiglie, però li vedevo in difficoltà, allora cominciavo
scherzando, dicevo: “vammi a prendere un lima da 50 pollici”
oppure “cerca un rullino di rame ricotto” però, se vedevo che non
funzionavano, chiedevo: “come si calcola l’area del quadrato?”.
“Bé… ma… allora… gli angoli”. “Fermati! Non muoverti più: tu non
sai niente”. Dovevo ricominciare e insegnavo come alla scuola di
fabbrica e dicevo: “Faremo le cose in un modo che tra quarant’anni
te le ricorderai ancora, ad esempio, il volume della sfera qual
è? Quattroterzipigrecoerretre”. Insegnavo la geometria con le
filastrocche, come avevano insegnato a me”.
In ricordo di Zeno.
[Scuola di fabbrica – Regione Autonoma Valle d’Aosta Archivio Storico Regionale – Fondo Nazionale Cogne Archivio Fotografico]