La UE ci chiede di fare più manutenzione

La UE ha da poco varato una direttiva che prevede per i prossimi anni standard minimi di prestazione energetica degli edifici e, insieme, garantisce il sostegno alle iniziative di miglioramento energetico offrendo una cifra di 150 miliardi da qui al 203

  • Febbraio 7, 2022
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    La UE ci chiede di fare più manutenzione

In poche parole, la UE ci chiede di fare molta manutenzione migliorativa, la quale fa coincidere gli interessi dei cittadini e delle imprese, che pagheranno sempre meno una bolletta energetica sempre più alta in termini di combustibili fossili, con l’interesse della collettività di proteggere gli ambienti naturali minacciati dal cambiamento climatico e di ridurre il crescente inquinamento delle zone urbane.

L’argomento non è nuovo e ne abbiamo discusso ampiamente in questa rubrica. Dobbiamo registrare però che dopo l’accusa di Greta Thunberg alla UE e agli stati membri rei di fare solo del bla, bla, bla, l’Unione si sta muovendo con nuove energie e con la definizione di limiti e finanziamenti.

I limiti, soprattutto quello riferito alle classi energetiche degli edifici, hanno fatto discutere più per l’essere stati fraintesi che per il contenuto della direttiva in sé. Ci auguriamo che nel tempo i cittadini e le associazioni siano meno suscettibili e diventino parte di questo processo di trasformazione della società: dalla “società dell’usa e getta e dello spreco” alla “Società della Manutenzione”.

La società della manutenzione. Molti colleghi sono anni che ne scrivono e ci sono tesi molto suggestive e proposte evolutive interessanti circolate finora solo fra gli addetti ai lavori. Ma ora siamo arrivati al cd redde rationem.

L’avvicinarsi inesorabile del 2050, scadenza che sembrava distante solo 5 anni fa, con le tappe intermedie del 2030 e del 2040, rende questi argomenti molto attuali e quindi anche i fabbisogni di manutenzione divengono centrali e forieri di grandi sviluppi.

Sappiamo che qualsiasi elemento materiale, naturale o antropico, privo di manutenzione è destinato a diventare inservibile. Qui si chiede qualcosa di più, non si tratta solo di mantenimento ma di manutenzione migliorativa. Non già di mantenere l’esistente, che per il patrimonio edilizio italiano sarebbe già una novità, ma di portare l’esistente ad un livello di prestazione accettabile.

Si chiede di mettere in condizione i territori di difendersi dalle cause che ne hanno determinato in questi anni un degrado sempre più evidente, con accorte politiche di indirizzamento della spesa guardando più che alle esigenze dell’oggi alle necessità del domani che comprendono inquinamento, sostenibilità e consumi di risorse.

Operazione non semplice, dato che non solo si verrà a creare un crescente fabbisogno di manutenzione nei prossimi trent’anni necessario a raggiungere gli obiettivi ambiziosi che ci siamo dati (affinché non rimangano un bla, bla, bla), ma la manutenzione stessa subirà l’imponente trasformazione delle tecnologie sottostanti, combinato disposto che produrrà un fabbisogno formativo pazzesco per adeguare le nostre fragili menti alle aspettative dei cittadini, a questo punto ambiziose, riguardo al superamento della catastrofe climatica e del deperimento delle risorse naturali.

Dieci anni fa non avrei mai immaginato che saremmo giunti a questo punto, e trovo molto incoraggiante che, a meno degli scettici di professione, ci siano così tanti percorsi evolutivi e ci sia una elevata disponibilità ad erogare finanziamenti per garantire il raggiungimento di tali ambiziosi risultati.

La stessa certificazione energetica degli edifici nel tempo è cambiata, dal 2015 l’Attestato di Prestazione Energetica, mira molto più alla riduzione delle emissioni che non alla dispersione termica, dominio esclusivo della legislazione precedente.

Già, perché l’obiettivo primario diventa la sempre più repentina riduzione delle emissioni nocive. La UE, infatti, con la politica ambientale Fit for 55, mira alla riduzione delle emissioni di CO2 del 55% entro il 2030, rispetto ai dati del 1990.

La riduzione delle emissioni si ottiene per due strade: attraverso una riduzione del fabbisogno energetico e (soprattutto) mediante l’impiego di fonti energetiche rinnovabili e per nulla inquinanti. Ad esempio, le pompe di calore che utilizzano il calore latente dell’aria per produrre energia termica risolvendo così all’origine il problema delle emissioni. L’adozione di piani di cottura ad induzione, al posto del classico piano a gas, ha il duplice vantaggio di non produrre alcuna emissione e di migliorare l’efficienza nella trasmissione del calore di ca il 50% (con l’induzione si scalda solo il fondo della pentola, mentre con il gas vi sono un sacco di dispersioni). E altre tecnologie che prevedono la produzione di energia senza alcun processo di combustione.

Infatti, il settore energetico è molto vivace, ci sono soluzioni allo studio da vent’anni che sono ormai mature. Avremo nuove armi a disposizione oltre alle classiche fotovoltaico, eolico, e idroelettrico. Ci saranno le pile a combustibile, i generatori a idrogeno, nuove possibilità di stoccaggio della energia elettrica economiche e compatte che manderanno in pensione il litio. Non dobbiamo quindi limitarci ad osservare il presente, ma vedere il futuro lungo il percorso fecondo dell’innovazione tecnologica.

Alla tecnologia si affiancherà l’organizzazione. Comunità energetiche come le GECO (Green Energy Community), permetteranno una gestione comunitaria della risorsa energetica locale riducendo le distanze tra produzione e consumo, promuovendo l’autoconsumo e lo scambio interno di energia prodotta in loco a partire da fonti rinnovabili. La produzione locale consentirà a queste piccole comunità ecosostenibili di cittadini di godere di autonomia energetica, con capacità di adattarsi ai consumi riducendo l’impatto sulle reti nazionali e il rischio di blackout. Una piccola rivoluzione.

Se a questo aggiungiamo la profonda trasformazione dell’industria, dall’automobilistico con il passaggio all’elettrico, ai settori della trasformazione con l’utilizzo delle materie prime seconde (lo scarto di una

azienda diventa la materia prima di un’altra come avviene in natura fra le specie), l’impatto sul lavoro e sul nostro futuro sarà rilevante come non è mai stato lungo tutto il secolo breve che pure ha visto l’evolversi di tre rivoluzioni industriali. Quel passaggio fra il non più e il non ancora che Aldo Bonomi da anni ci segnala come criticità lungo l’avanzamento verso la modernità.

I cittadini devono realizzare che dovranno mettere a budget per manutenzione almeno l’1% annuo del valore dei beni patrimoniali che possiedono, altrimenti non riusciranno a garantirne la funzionalità nel

tempo e l’adeguamento alle normative come ci è richiesto non con la coercizione ma con la persuasione per un futuro sostenibile e per lasciare ai nostri figli un mondo accettabile.

E l’1% del valore a nuovo dei beni per quasi trent’anni di manutenzioni è una cifra imponente che unita agli investimenti statali ci metterà nelle condizioni di raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissi, con buona pace di Greta Thunberg.

L’investimento in manutenzione produrrà come “effetto collaterale” il miglioramento della sicurezza nelle abitazioni, negli uffici, negli stabilimenti e in tutte le strutture pubbliche e private. Eliminando le combustioni si ridurranno in proporzione molti infortuni domestici e una parte degli infortuni sul lavoro.

La “Società della Manutenzione”, non può che essere il fine ultimo della transizione ecologica, al termine di un percorso di miglioramento che ci poterà alla decarbonizzazione completa del nostro paese.

Maurizio Cattaneo Amministratore, Global Service & Maintenance