Asset Integrity Management

L’Asset Integrity Management (AIM) interessa tutte le fasi della vita di un asset: dalla fase di progettazione alla fase di disattivazione, passando per le fasi di instal- lazione, messa in funzione e vita utile

  • Settembre 20, 2021
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La corretta gestione di un asset, sia che esso faccia parte di un impianto industriale o di un’infrastruttura civile, non può prescindere da un bilanciamento sistematico tra i profitti derivanti dal normale funziona- mento dell’asset e i rischi (eventualmente quantificati in termini di costo) che insorgono in seguito a rotture catastrofiche, guasti o malfunzionamenti. In altre parole, l’Asset Management (AM) deve da un lato salvaguardare il business aziendale e, dall’altro, garantire la sicurezza delle persone, dell’ambiente e degli asset stessi. Sulla base delle precedenti asserzioni, è possibile affermare che non si può parlare di AM senza affrontare il tema dell’Asset Integrity Management (AIM).

Il primo settore produttivo che ha vissuto l’implementazione dell’AIM è il settore Oil & Gas. Quest’ultimo è infatti fortemente contraddistinto da eventi di guasto rari, ovvero caratterizzati da una bassa probabilità di accadimento, ma che possono implicare devastanti conseguenze per le persone e l’ambiente circostante. Proprio partendo da questo aspetto ha avuto origine l’AIM, ossia un processo continuo basato sull’applicazione di pratiche finanziarie, manageriali e ingegneristiche finalizzato a massimizzare il valore generato da un bene durante il suo ciclo vita, preservandone contemporaneamente la capacità di assolvere alla sua funzione in modo efficace ed efficiente, oltre ad assicurare conformità alle norme esistenti in materia di salute, sicurezza ed ambiente.

L’AIM interessa tutte le fasi della vita di un asset: dalla fase di progettazione alla fase di disattivazione, passando per le fasi di installazione, messa in funzione e vita utile. Durante quest’ultima fase, l’AIM è solitamente caratterizzato dall’adozione di opportuni piani di manutenzione e ispezione. Infatti, 

ogni asset è soggetto ad un inevitabile processo di usura e invecchiamento, che comporta una progressiva perdita di efficienza e capacità di svolgere la propria funzione fino alla manifestazione di un guasto. È fondamentale sottolineare come esistano varie tipologie di manutenzione, la cui scelta in ottica di AIM dipende da vari fattori, tra cui il contesto all’interno di cui si inserisce l’asset, le conoscenze aziendali pregresse, il livello di preparazione del personale e le risorse disponibili. Tra le varie strategie manutentive implementabili si evidenziano la Condition-Based Maintenance (CBM) e la Risk-Based Maintenance (RBM). Per quanto riguarda la CBM, a seguito di una valutazione sullo stato attuale di un asset (diagnosi) viene stabilita la necessità di un intervento manutentivo in base al raggiungimento di una condizione-soglia predeterminata. Questa strategia si fonda pertanto sulla raccolta dati inerente a para- metri che denotano la condizione operativa dell’asset. Invece, in caso di adozione di RBM, le attività manutentive vengono pianificate sulla base del rischio derivante dai vari asset e nel caso più semplice a intervalli di tempo prestabiliti. Ovvero, asset considerati più rischiosi vengono manutenuti più frequentemente. Infine, RBM e CBM possono talvolta essere integrate in quanto la condizione limite per la quale la CBM pianifica un intervento manutentivo può essere basata sul livello di rischio.

Da quanto detto, si intuisce come il monitoraggio, la diagnostica e, infine, la capacità di effettuare previsioni sullo stato operativo di un certo asset, siano aspetti chiave nell’implementazione di un piano di manutenzione efficiente ed efficace. Infatti, ogniqualvolta un’azione manutentiva ha luogo, il gestore dell’asset sostiene dei costi legati allo “spreco” di vita utile delle parti sostituite, alle nuove parti messe in funzione dalle squadre manutentive e a eventuali interruzioni delle attività.

Nella tematica dell’AIM, dunque, sorge un importante problema, ovvero non è possibile gestire ogni asset o ciascun elemento di un asset allo stesso modo. Infatti, implementare pratiche manutentive fortemente stringenti per prevenire guasti su tutti gli asset o componenti di un asset, innalzerebbe fortemente i costi, seppur garantendo attività molto sicure. Risulta quindi fonda- mentale adottare degli approcci preliminari che siano in grado di classificare gli asset in termini di criticità sulla base del rischio derivante dai guasti. Una delle tecniche più comuni è quella di considerare un indice di rischiosità, come ad esempio il Risk Priority Number (RPN) derivato dall’approccio FMEA/FMECA, e assegnare a ciascun componente un valore di RPN. La metrica di rischio in questione deve tenere conto dei tre fattori caratterizzanti il rischio, ovvero: 1) occurrence, legata alla probabilità di guasto 2) severity, legata alle conseguenze de- rivanti dal guasto e 3) detectability, legata alla capacità di individuare l’insorgenza di un guasto. Sulla base dell’indice di rischio si possono individuare i componenti più critici verso cui dirigere gli sforzi e gli investi- menti manutentivi.

Si evince che in ottica AIM sia fondamentale ottimizzare il piano manutentivo di ogni asset tramite approcci sistematici che considerano contemporaneamente costi, rischi e profitti legati all’integrazione tra attività di business e manutentive. Occorre quindi considerare la manutenzione come un’attività chiave ai fini del raggiungimento degli obiettivi aziendali, della profittabilità nel lungo periodo e della tutela degli interessi di tutti gli stakeholders coinvolti. Sotto quest’ottica è di cruciale importanza definire per quali asset o componenti adottare la CBM e valutarne l’effettivo risparmio economico. Quest’ultimo punto rappresenta una delle attuali sfide da superare, infatti, non sempre è semplice determinare gli effettivi vantaggi economici nei confronti di altre strategie manutentive. A questo scopo, negli ultimi anni, sono stati utilizzati vari approcci per definire la filosofia manutentiva da adottare e sceglierne i parametri ottimali. Tra questi si evidenziano i metodi di ottimizzazione multi-obiettivo, simulazione ad eventi discreti e simulazione ad agenti. Tuttavia, nella maggior parte dei casi vengono assunte semplificazioni importanti come la mancanza di errore del sensore o la mancanza del deterioramento del sensore. Pertanto, risulta necessario definire tecniche olistiche che siano in grado di stimare i costi legati alle attività manutentive considerando tutti gli aspetti in gioco. 

In conclusione, un altro punto chiave è come utilizzare i dati per prendere decisioni manutentive. Difatti, può capitare che non vi siano le conoscenze per elaborare i dati raccolti o che i dati raccolti non siano sufficienti definire l’evoluzione nel tempo delle caratteristiche di affidabilità dell’asset. Supponendo invece che i dati siano adeguati e sufficienti e che vi siano le conoscenze per studiarli, il problema si ha nella scelta della tecnica da utilizzare per determinare la condizione attuale dell’asset ed effettuare prognostica mediante stima della vita utile rimanente o Remaining Useful Life (RUL). Attualmente, in questa fase le tecniche di Machine Learning sono molto popolari, tuttavia ne esistono molte e scegliere la più consona al caso in studio è un’attività tutt’altro che banale. Inoltre, i dati disponibili non sempre riportano idonee “etichette” che identifichino la condizione di funzionamento del sistema, complicando maggiormente l’applicazione degli approcci di Machine Learning, che passano da essere di tipo “supervised” (in cui i dati sono caratterizzati da variabili in- dipendenti e dipendenti) a “unsupervised” (in cui i dati non riportano la variabile da predire).

Prof. Filippo De Carlo, Direttore Responsabile Manutenzione & AM

Leonardo Leoni, Dipartimento di Ingegneria Industriale Università di Firenze